In un recente articolo sul Carlino, Alessandro Milan scrive che “gli influencer parlano di tutto ma di guerra no”.

In pratica racconta che tra i 100 principali influencer italiani di Instagram solo il 25% ha deciso di dedicare un post al conflitto e se si prende in considerazione TikTok il numero scende al 10%.
Dice Milan, che seguo e mi piace come giornalista, che è un’occasione persa visto che in certe situazioni si dovrebbe prendere posizione e sensibilizzare milioni di ragazzi che altrimenti “rischiano di vivere in una bolla di superficialità”.
Mi permetto di dissentire.
Quelli che Milan chiama influencer (immagino solo riferendosi al numero dei follower) hanno un target ben definito di utenti e una modalità molto precisa di comunicare: si chiama posizionamento.
Se dicessero cose del tutto diverse dalle solite, nello stesso ambiente in cui parlano di solito, sarebbero poco credibili, grotteschi e non farebbero altro che allontanare chi li segue visto che in quel “luogo” si aspettano “quella cosa”, mentre sarebbe diverso uscendo dai loro canali e dalla loro comunicazione, ma non si parla di questo, nell’articolo.
L’esempio che Milan fa di Ferragni e Fedez sugli Uffizi non regge per il semplice fatto che loro sono due “mainstream” con un target del tutto diverso da Kabi Lame o dalla Crisafulli o da Vacchi.
La verità è che quando si parla di influencer non si sa cosa sono, chi sono, cosa dovrebbero fare, come, dove e come misurarli.
Meglio che Vacchi continui con i balletti in barca, quello che fa’ e fa’ bene, piuttosto che creare contenuti sulla guerra e sulle stragi rendendosi ridicolo e ridicolizzando per osmosi quello di cui parla con il risultato di sollevare un coro di “continua a fare i tuoi balletti che è meglio”.